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07/11/2018 06:00:00

L'Italia e l'immigrazione: cinque cose da sapere, e una da fare

 di Marco Marino

Quasi un anno fa - era dicembre e a Stoccolma doveva fare particolarmente freddo - un signore di media statura, dai tipici tratti orientali del sud dell'Inghilterra, vestito in modo impeccabile, ha detto che è stato costretto «a riconoscere che l'inarrestabile cammino dei valori dell'umanesimo liberale», che aveva dato per scontato sin dall'infanzia, «poteva essere stato un'illusione».

 

E quella preannunciata dal premio nobel Kazuo Ishiguro è un'illusione che sembra prendere, ad ogni elezione del Vecchio e del Nuovo Mondo, le sembianze di un'utopia. La dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, la dimensione cosmopolita delle coscienze, l'alfabetizzazione capillare che ci libera dalle propagande populiste: traguardi che vacillano.

 

Eppure per non lasciarsi trasportare dal clima di paura dell'altro, dalla costruzione del nemico di turno su cui facilmente costruire le ragioni della crisi di un Paese, sarebbe sufficiente soltanto soffermarsi il tempo (badate, basta appena un'ora) per leggere un volumetto di 51 pagine, il titolo è «5 cose che tutti dovremmo sapere sull'immigrazione (e una da fare)» (Editori Laterza, 2018; 3€), l'ha scritto il sociologo Stefano Allievi.

 

Assieme al professore Allievi, ospite della seconda edizione del festival «38° Parallelo - Tra libri e cantine», avevamo iniziato a riflettere di immigrazione e integrazione già a fine maggio. Il caso Diciotti e le politiche del governo gialloverde certo non erano immaginabili allora. Ricominciamo, quindi, a parlarne con lui proprio dove ci eravamo interrotti pochi mesi fa.

 

Buongiorno, professore. Le riporto alcuni dati estrapolati dal suo libro «5 cose che tutti dovremmo sapere sull'immigrazione (e una da fare)»: gli stranieri con i loro contributi INPS pagano 600.000 pensioni di italiani; sono circa il 10% della popolazione anche se gli italiani pensano siano il 26%. Realtà e percezione: in Italia, oggi, cosa vince?

 

Vince sicuramente la percezione, lo si capisce da qualunque fatto succeda che riguarda gli immigrati, sia un fatto violento sia qualcosa di banale come impedire l'ingresso in mensa. Vince la percezione anche perché c'è chi lavora perché succeda questo. In parte sono i media e in parte, certamente, il sistema politico e il governo stesso che in qualche modo soffiano sul fuoco: quando il ministro dell'Interno continua a parlare quasi solo esclusivamente, ossessivamente, di questo argomento crea la percezione.

 

Fra parentesi, nel titolo, c'è scritto «(e una cosa da fare)»: la sua proposta è riaprire i canali regolari dell'immigrazione. Un'idea immediata, efficace. Sembra naturale chiedersi perché nessuno degli ultimi governi ci abbia pensato prima...

 

Prima di tutto io parto dallo stesso presupposto da cui parte chi ha paura dell'immigrato, cioè che ci vuole sicurezza e il modo migliore per produrre sicurezza è l'integrazione e il modo migliore per produrre integrazione è far sì che il cammino sia più breve cioè che uno entri già regolarmente anziché irregolarmente. E poi perché è un'ovvietà dal punto di vista dei principi, facciamo un esempio molto semplice: se noi dichiariamo, da domani, facciamo una legge per cui sono vietati i liquori stranieri, possiamo illuderci che non ci saranno più liquori stranieri, che nessuno li berrà più, oppure possiamo immaginare che si verrebbe a creare un nuovo mercato di contrabbando. Ecco, senza volerlo ammettere, è quello che è successo con l'immigrazione: lo Stato ha affrontato il problema dicendo «io non lo regolo più, non li voglio proprio vedere, non voglio che entrino regolarmente (come succedeva in passato)» … e quindi entrano irregolarmente, con tutte le conseguenze del caso. Perché non se ne prende atto? Per tante ragioni. Dal punto di vista di chi, diciamo, è contro gli immigrati perché conta a prescindere regolari o irregolari senza voler tener conto di niente di quel che succede nel mondo, del fatto che se si innesca la logica della chiusura poi la Germania chiude e ci rispedisce dietro gli immigrati che ha lì e la Gran Bretagna con la Brexit chiude agli italiani e così via. Vogliono effettivamente un mondo chiuso: frontiere che diventano muri. E questo vorrebbero ottenere senza rendersi conto degli effetti negativi che avrebbe sull'Italia stessa, non ci si vuol rendere conto che queste persone sono già da vent'anni integrate, han dei figli qua, alcune hanno già i nipoti, senza volersi rendere conto che producono il 10% del PIL, senza volersi rendere conto che nel settore turistico-alberghiero sono il 20% della forza lavoro, che nell'edilizia sono il 18%... Senza volersi rendere conto che noi abbiamo un calo demografico terrificante che ha degli effetti pazzeschi non solo per quanto riguarda il sistema pensionistico, ma si va prefigurando una società di vecchi, la piramide demografica è completamente rovesciata.

E poi c'è chi lucra sul conflitto, sul fatto che esiste il conflitto, per cui risolvere i problemi legati all'integrazione non conviene affatto: conviene incancrenirli così ci si presenta alle elezioni come quelli che vogliono risolvere il problema all'origine non avendo nemmeno gli immigrati.

E infine ci sono le forze non pregiudizialmente contrarie agli immigrati che non vogliono ammettere di aver sbagliato fino ad ora e non vogliono dire alla pubblica opinione «scusate, vent'anni fa quando abbiamo chiuso le frontiere ci siamo sbagliati e oggi bisognerebbe riaprirle». Anche se la consapevolezza che bisognerebbe farlo in modo regolato, selettivo, comincia a crescere nella pubblica opinione, per fortuna.

 

Ormai sono cinque mesi di Matteo Salvini al Ministero dell'Interno: ha compiutamente fatto qualcosa o la sua è solo un'imbastitura mediatica per incrementare paure e consenso?

 

Cominciamo a prendere sul serio le paure, perché è il punto di partenza vero. Se io di fronte alle paure dico che non sono razionali o rispondo con una statistica non ho risolto il problema. Se mio figlio ha paura io devo ascoltare le sue paure, accoglierle, accompagnarle e poi lentamente fargli vedere che le cose stanno diversamente. Mentre, invece, il mondo progressista, la sinistra, il mondo cattolico, ha fatto quest'errore educativo clamoroso: di fronte alla paura del buio del bambino gli dice «stupido» oppure gli dice «irrazionale». Ed è un'autocritica che va fatta, ma non c'è consapevolezza. Quindi se vincono le paure è perché qualcuno non ha saputo rispondere alle paure. Dopodiché la risposta alla domando è no, non ha fatto molto perché non gli interessa. Ribadisco: interessa evocare il problema perché su quello si lucra il consenso almeno nel breve periodo. E poi, però, va detto che questo ha un effetto su tutti quanti. Faccio un esempio, prendiamo la Germania. Il fatto che cresca l'Afd, il partito xenofobo, non ha effetti solo sul fatto che gli elettori dell'Afd aumentano, ha effetto anche sulla Merkel che la pensa diversamente ma che deve dire «se io faccio così, gli elettori dell'Afd aumentano e sarà peggio ancora, per cui è meglio che faccia un po' quello che vogliono loro». E questo avvelena i pozzi della politica. Un meccanismo molto forte che però non credo durerà a lungo perché si cominceranno a capire i danni di queste politiche e anche i vantaggi di una politica regolata bene dove se c'è un conflitto lo risolvi, ma prendi atto che spesso i conflitti non ci sono ed è inutile inventarseli per creare scompiglio.

 

Lei insegna sociologia all'università di Padova. I pensatori di riferimento del nostro presente pare escano tutti dalle file della sociologia, mi vengono in mente i nomi di Alessandro Dal Lago, Domenico De Masi. È la sociologia la materia che adesso, davvero ci insegna a leggere il nostro quotidiano?

 

Se ne sa molto poco e ne se fa molta poca, di sociologia; si confonde con la sociologia la lettura dei giornali, c'è molto sociologese e pochissima ricerca sociologica, perché la sociologia è soprattutto una scienza empirica ciò vuol dire fare ricerche, vuol dire capire quel che sta succedendo perché si va a vedere quel che sta succedendo. La sociologia, come scienza umana, – è mia personale visione – si pone fra l'analisi dei dati e la proposta di scenari. Ed è quello che io, nel mio piccolo, ed altri cerchiamo di fare scrivendo dei libri che siano comprensibili ai più e che indichino dei tracciati, dei possibili sentieri per la convivenza civile. Dopotutto la sociologia di mestiere si occupa di come funziona la società, non può limitarsi a guardarla crollare, deve indicare quali sono le ragioni del crollo e le possibili soluzioni.